VITO FRAZZI: IL MANGIAFUOCO
di Giovanni Papini


Il maestro Vito Frazzi - detto il mangiafoco della musica affermativa - io lo conobbi secoli fa, nell'età della preistoria, cioè prima della prima guerra ecumenica. Andavo in quel tempo, qualche sera, a casa d'Ildebrando Pizzetti, che insegnava a Firenze, e abitava fuor di Porta a San Gallo, in un cantuccio, allora silenzioso, accanto alla chiesina della Madonna e della Tosse. Ildebrando da Parma era divenuto quasi improvvisamente celebre con la Fedra e dirigeva, presso la libreria della Voce, una rivista di musica intitolata, per polemica volontà, Dissonanza. Era giovane e infervorato ma già un po' cupo, con due occhi di bel diamante nero, e con i capelli neri dritti in fila sulla fronte alta come un diadema di spilli infernali. A quel tempo era innamorato di Vincenzo Bellini - intorno al quale scrisse poi uno dei suoi saggi più precisi e perfetti - e mi faceva sentire al piano, con commenti suoi, le pagine più patetiche eppure della Norma e della Sonnambula. Una di codeste sere trovai nel suo salotto un giovanottino timido e taciturno, vestito in grigioverde. Era Vito Frazzi: somigliava un po' a un mongolo di pelle bigiastra, con una di quelle facce schiacciate e disfatte come si incontrano talvolta nei disegni di Daumier. Non era bello, a dir vero, ma ci s'accorgeva, parlando con lui e sorvegliando i suoi occhi svegli e cercatori, che possedeva ciò che si usava chiamare, a quell'epoca remota, un'anima. Si diventò subito amici e quest'amicizia, nutrita da una certa somiglianza, di gusti e di origini, s'è rafforzata con gli anni. Vito Frazzi viene dal popolo, da quell'umile popolo italiano che sta in bilico sui confini che dividono la povertà dalla miseria. Ma di quel popolo sacrificato ma non disperato, ha e serba le migliori virtù: la volontà tenace di ascendere, l'amore genuino e spontaneo dell'arte, la generosa pietà verso i poveri e gl'infelici, una certa sensualità sana e una certa passionalità elementare che l'hanno salvato sempre dai pretenziosi cerebralismi che hanno infettato e inaridito tanti musicisti dei nostri giorni. La musica è per lui il linguaggio naturale dell'uomo, del suo sangue, della sua carne, dei suoi affetti, del suo spirito ardente e onesto. Vito Frazzi è nato nella "zona d'influenza" della miglior tradizione musicale italiana, in quel vecchio ducato di Parma dal quale sono venuti a noi Verdi e Toscanini, Pizzetti e Barilli. Nacque, difatti, a San Secondo Parmense ed ha studiato nel Conservatorio di Parma, grazie a una borsa di studio messa insieme, per amor della musica, dai suoi poveri compaesani, una borsa così mencia che gli permetteva a malapena di non cadere svenuto d'inanizione durante l'ore eterne dello studio. È stato dunque anche lui, come tanti maestri celebri, un martire e un'eroe dell'amore per la musica che, fra i mille amori che bruciano gli uomini, è certo uno dei più risplendenti e purificanti. Quasi tutta la vita l'ha sofferta e combattuta a Firenze, nella patria di Lulli e di Cherubini; qui s'è sposato, qui gli son nate le figliole; qui ha composto e pubblicato le sue prime opere; qui ha insegnato ed insegna come professore di armonia e di contrappunto: pochi, in Italia, l'eguagliano e chi ha letto le sue partiture d'orchestra conosce la sua mirabile maestria di strumentazione. Ma per quanto sia padrone di tutte le risorse della tecnica non s'è mai lasciato tentare dalle avventure dodecafoniche; Frazzi pensa che tutta la grande musica discende da certi accordi assoluti ed eterni che non si devono ignorare né violentare. La sua musica vuol vedere l'uomo in faccia, rispondere al suo cuore, come quella dei creatori che più sente ed ama: Verdi e Mussorgski. Perciò egli ha preferito sempre la musica sposata alle parole, la musica assorellata alla poesia, la musica ch'è. incanto dell'uomo commosso. l puri giochi sonori, tonali o atonali, gli sono estranei molesti; non si diletta di funambolerie intellettualiste né di trovatine ciarlatanesche. Vito Frazzi, come ho detto, è un uomo naturale e intero: vive per l'arte sua e non s'è perso in amori extravaganti. Ma gli piace, nell'ore di riposo, di conversare argutamente con gli amici, di tenzonare furiosamente con gli avversari, di guardare un bel quadro, di raccontare una barzelletta, e magari di assaporare una gustosa pietanza e un bicchiere di vino schietto. È un italiano di semplice e buona razza come quelli che usavano in altri secoli, quando l'arte e la felicità fiorivano meglio di oggi. A dispetto di questa nativa saggezza ha provato il bisogno di scegliere, come protagonisti delle sue opere, due famosi pazzi: il vecchio Re Lear, reso frenetico dall'amor paterno, e il magro Don Chisciotte, divenuto allucinato per eccesso di bontà e di letteratura. Forse c'era in Frazzi una follia segreta ch'egli ha saputo dominare nella vita e che ha cercato il suo sfogo nell'arte. Si aggiunga che si tratta didue umanissimi pazzi che, per diverse ragioni, commuovono gli animi gentili e che rivelano, nei momenti di lucidità, una saviezza più profonda di quella dei savi da dozzina. Due opere sole, in una vita già abbastanza lunga, sembrerebbero poche, quando si pensi alla fecondità vertiginosa dei maestri del Sette e dell'Ottocento. Ma bisogna ricordarsi che oggi la vita di un musicista - e quella del teatro - è assai diversa da quella dei secoli passati. Oggi gli artisti, quasi tutti, poeti o musici che siano, sono obbligati a fare i professori e talvolta perfino gl'impiegati. Uomini di valore, come Pizzetti e Ungaretti, non si son potuti sottrarre a questa mortificante condanna. Si aggiunga che gli stipendi pagati dallo Stato italiano, anche ai più grandi ingegni, si chiamassero pure Carducci o Pascoli, sono stati sempre e son sempre peggio che sottili, sicché gli artisti, oltre che spender molte ore nella scuola, debbono ingegnarsi in altro modo per campare la famiglia. Ed è bene poi sapere che, ai nostri presenti giorni, i grandi teatri di musica non accettono facilmente opere nuove. Il Re Lear di Frazzi, cominciato nel 1922, non si poté rappresentare - e ci volle del bello e del buono - che nel 1939. Il suo Don Chisciotte era compiuto da molti anni in tutte le sue parti, ma se non fosse venuto il più che favorevole giudizio della commissione internazionale della Scala avrebbe dovuto, forse, attendere ancora la prova dell'orchestra e del palcoscenico. Frazzi non è un lavoratore rapido, ma in compenso non è un facilone che si affida all'improvvisazione. Aspetta con serena fede le ore felici, i favori dell'estro, i doni del buon mattino. Eppoi, forte della sua scienza, costruisce, cesella e lima la parte strumentale né bada a spese di tempo. Più anni, perciò, ha preso l'elaborazione del Re Lear; più anni quella del Don Chisciotte. Grande prova di coraggio fu quella di Frazzi quando scelse, per la sua prima opera, il forsennato re di Shakespeare. Quel soggetto aveva tentato più volte Giuseppe Verdi, che aveva pensato anche al libretto, ma che alla fine rinunciò all'impresa. Anche Berlioz, a quanto pare, aveva pensato a un Re Lear perché compose, nel 1831, un'ouverture che porta questo titolo. Vito Frazzi non fu sgomentato dal monitor di questi grandi nomi e compose un'opera che se fosse stata eseguita qualche volta di più, sì da permettere al pubblico d'intenderla meglio e con agio, potrebbe ora far parte del nostro repertorio novecentista. Ma le opere nuove, al tempo nostro, non vengon date più di due o tre sere: è, dice Frazzi, come se si mostrasse un quadro a gente che passa correndo in automobile. Il Re Lear fu accolto, nel 1939, con molto entusiasmo: l'atto della tempesta, quando, in mezzo al furore degli elementi scatenati, i tre pazzi - il vecchio re, il suo fedele buffone e il finto pazzo - urlano e si atterriscono insieme, è degno, per la sua potenza espressiva ed emotiva di qualsiasi compositore di grido. All'infelice padre di Cordelia fece seguito il valoroso dissennato di Castiglia, accompagnato dall'epico e comico Sancio, presentato in cinque episodi salienti della sua guerra contro l'irrimediabile mediocrità del reale. Il musicista visse molti anni in fratellevole intimità con il cavaliere dalla triste figura e volle scrivere da sé il libretto per essere in più stretta familiarità con l'amato eroe. S'è impadronito, perciò, di tutta la sostanza popolaresca e cavalleresca, patetica e poetica, che il genio di Cervantes seppe fornire all'infelice hidalgo e al suo scudiero. L'opera non è stata accolta con entusiasmo, specialmente dalla critica, più dispettosa che generosa, ma Vito Frazzi, fedele al suo carattere di eroe popolano, ha risposto mettendosi a comporre una seconda parte del Don Chisciotte.

G. Papini - Frazzi: il Mangiafoco
da "La Loggia dei Busti" Firenze 1955