MUSICISTI DEL NOSTRO TEMPO: VITO FRAZZI
di Luigi Dallapiccola


Per chi oggi è abituato a considerare Firenze uno dei più importanti centri musicali del mondo, mèta dei musicisti d'Europa e d'America, non è facile immaginare che cosa fosse la città di Firenze nel 1922 e negli anni precedenti. La vita musicale non esisteva assolutamente. Ma esisteva un ristretto gruppo di artisti, che faceva capo a Ildebrando Pizzetti e che si radunava appunto in casa Pizzetti, ed è a questo gruppo che si deve in buona parte l'inizio della rinascita musicale della città. Ancor oggi, coloro che ebbero la fortuna di prendere parte a quelle riunioni, ne parlano con un senso di commozione. Si trattava di musicisti che vivevano nell'isolamento. La gente non si occupava di loro; coloro che non vogliono o che non possono capire quale abisso vi sia tra ispirazione e realizzazione li consideravano, s'intende, "cerebrali"; altri temevano che non avessero un culto sufficientemente profondo per i "Grandi del Passato". Musicisti che, se non potevano vantare un numero straordinariamente grande di esecuzioni, erano - in parte almeno - conosciuti e stimati dai musicisti europei più famosi. Isolamento quindi che si potrebbe definire splendido. Le polemiche non mancavano neppure in quel periodo, ma certo non erano così frequenti come costumano oggi i richiami all'ordine sotto forma di manifesti musicali o di inviti a scrivere della musica divertente, motivando magari tale invito col fatto che uno "SchIager" dell'ultimo film è più accessibile alla massa di quanto non sia, ad esempio, una sonata bachiana per violino solo. E allora non c'era il "celebre musicista straniero" che metteva mano alla penna per decretare che l'epoca delle esperienze è finita e che in un giorno da stabilirsi bisognava incominciare a "realizzare". Per queste ragioni a distanza di tanti anni ormai si sarebbe quasi tentati a definire invidiabile l'isolamento dei musicisti fiorentini dell'immediato dopoguerra, se oggi, manifesti, consigli, articoli e certa facile esaltazione di lavori anche mediocri, purché il loro autore sia morto da cent'anni almeno, e certo dispregiativo categorico per tutto quello che di nuovo vien fatto non dimostrassero in fondo chiaramente che, nonostante tutto, questa musica moderna - anzi soltanto quella moderna - conquista lentamente ma gradualmente terreno. Vito Frazzi apparteneva al gruppo di musicisti fiorentini e, col suo ideale estetico e tecnico già in parte formato, era deciso a portare in fondo le sue esperienze. Nelle sue non molto numerose composizioni, di cui varie sono sino ad oggi inedite, due elementi sopra tutto ci colpiscono già a una prima lettura: l'elemento lirico a sfondo popolaresco e quello drammatico. A proposito del primo sarà bene notare subito come mai Vito Frazzi sia stato tentato dal folclore, neppure negli anni in cui, anche da parte di músicisti di grande valore, si considerava proprio l'elemento folcloristico destinato a infondere nuovo sangue e nuova vita alla musica moderna. (Strawinsky e Bartók a parte, i quali hanno saputo trasfigurare il melos popolare e creare qualche cosa di assolutamente nuovo, che cosa è avvenuto di tanta musica basata sul folclore? Non vien fatto di pensare "mais où sont les neiges d'autan?" al vedere quanto presto sia invecchiata, proprio per questo vizio di origine, tanta parte della musica spagnola moderna, vorrei anzi dire tutta la musica spagnola del periodo che va dalla morte di Pedrell alla più matura attività di De Falla?). Frazzi non crede dunque al folclore. Si sente popolano, ma non accetta elementi musicali di origine popolare. Vuole inventare volta per volta l'anima del popolo. Ruvidi e duri ritmi caratterizzano l'elemento drammatico di Frazzi: si tratti di musica vocale o di musica puramente strumentale esiste sempre un sistema di "sillabazione" molto caratteristica. Sillabazione e accento presiedono sopra tutto alle sue composizioni di carattere drammatico e danno loro l'aspetto più personale. Nelle composizioni per canto e pianoforte domina spesso l'elemento lirico, nel giovanile Vere novo, nella semplice e commossa Ninna nanna, in Dint'o'ciardino, su poesia di Salvatore Di Giacomo, tutta pervasa da un'ondata di gaiezza innamorata. L'altro elemento permea tutta la potente Preghiera di un Clefta (poesia popolare greca, tradotta da Niccolò Tommaseo) facendone un brano di irresistibile effetto. “S'io sapessi e mi dicessero in che mese morrò, in quale chiesa sarò sepolto, in qual santo convento, prenderei le mie scuri, andrei nel giardino per trovare il candido marmo, la preziosa pietra, per trovare anche il capo muratore, e così pregarlo: "Mastro, capomastro, fammi una bella fossa, che sia larga per le armi, alta per la lancia, che abbia da man dritta una finestra, che vengano e che vadano le belle, vengano le nere occhiute e dicano: “Che Dio perdoni al giovane che ci amava!". Ventisette battute condotte con mirabile logica; non c'è una nota di troppo; il discorso musicale non si sbanda un istante; il ritmo martella da cima a fondo con una violenza ossessionante. Qui siamo in pieno dramma. Talvolta i due elementi si compenetrano integrandosi e allora ci troviamo di fronte al migliore Frazzi. In Catarì Catarì..., per esempio, primo incontro artistico del musicista con Salvatore Di Giacomo, dove per gradi quasi insensibili si è portati dalla poetica atmosfera notturna all'umanissimo e disperato grido finale: “Tu si' stata traduta! Tu si' stata lassata! Tu si' stata 'inchiantata! Pure tu! Pure tu!“. E così nel canto popolare intitolato Il cavaliere in cui, pur mantenendo in tutto il pezzo quell'inalterato carattere di ballata che costituisce il suo maggior fascino, il dialogo è reso in modo mirabile.

- Cavaliere, cavaliere
Dove vai a cavalcà?
- lo vo dalla lia Bella;
Gli è tre anni che non so' sta.
- La tua bella l'è già morta,
L'aggio vista proprio mi;
La carrozza che l'à porta
L'era d'oro e d'argentì
E quel vel che la copriva
L'era bianco e celestì
E quel prete che cantava
Le cantava d'angiolì...

E pure nell'originale Vocalizzo, che non saprei definire bonario o rassegnato o disperato. Siano o non siano le tre ultime liriche nominate le più belle da un punto di vista strettamente estetico, siano o non siano da un punto di vista assolutamente costruttivo le più solide, sono profondamente convinto che in esse va ricercato quanto di più importante ci ha dato in questo campo il Frazzi e che siano essenziali per l'esatta valutazione del Re Lear sopra tutto. Non ho compreso nell'elenco delle liriche quella "Canzone di strada", intitolata A bel colore perché questa non mi dà l'impressione del "completamente finito" che trovo nelle altre. Fu un errore per Vito Frazzi, sempre vigile nella scelta di testi poetici autentici, scegliere versi pieni di un toscanismo di maniere che ben poco potevano suggerire alla sua fantasia d'artista. Infatti, nonostante la foga dell'inizio, il pezzo non procede con quel carattere unitario che amo ed apprezzo nelle altre sue composizioni. Nelle liriche la parte accompagnante offre testimonianza del singolare modo di trattare il pianoforte da parte dell'autore. A questo strumento egli ha dedicato una parte non trascurabile della sua attività. È del 1919 la Toccata, del 1921 il Madrigale, del 1932 La danzatrice amorosa.
La maestria della scrittura pianistica in questi tre pezzi non è discutibile. E se, nella Toccata sopra tutto, si volesse considerare difetto una certa sovrabbondanza di note e di particolari, gioverà osservare subito che non ha nulla a vedere, per esempio, con il decorativismo barocco e troppo spesso artificioso di un Albeniz. Nella Toccata non è difficile, dopo un attento esame, accorgersi di come quasi nulla sia soltanto "pianistico": anche le figurazioni e gli incisi sono essenziali come essenziale è il disegno, dato che questi sono di derivazione strettamente tematica e costruttiva. Ma nonostante i suoi molti pregi, questa Toccata non ha il valore delle migliori liriche di Frazzi. Invece, il Madrigale è riuscito un brano pianistico completamente personale; l'ispirazione, che non soffre di una incrinatura, è costretta in un quadro sonoro del più grande pregio. E il caso di ripeterlo? Anche nel Madrigale domina sovrano l'elemento lirico a sfondo popolaresco e questo carattere è espresso in sobrie linee tematiche avvolte in poetici arpeggi e rette da bellissime armonie. Per la prima volta in questo breve saggio, quasi a caso, ho scritto la parola armonia. Qui sarebbe necessario diffondersi a lungo sull'argomento. A differenza di quasi tutti i musicisti contemporanei, i quali basano la loro musica massimamente sul contrappunto lineare, Vito Frazzi fa poggiare la sua invenzione e le sue realizzazioni sopra elementi di natura quasi esclusivamente armonica. Per lui la concatenazione degli accordi resta ancora e sempre fondamento di ogni discorso musicale. Si potrà discutere storicamente questo atteggiamento, ma non è discutibile la sua assoluta buona fede e la totale mancanza di spirito polemico. Ricordo quasi testualmente come vari anni fa il Frazzi mi raccontò di essersi reso conto che il suo senso armonico, gradatamente sviluppatosi, stava per segnare un punto d'arrivo.
"Alcuni amici mi avevano chiesto di suonar loro al pianoforte qualche frammento del Re Lear. Un'esecuzione chiara e molto difficile e perciò mi decisi un giorno a studiare i passi tecnici e a diteggiarli. Con una certa meraviglia mi accorsi allora che da anni adoperavo nelle mie composizioni scale di otto suoni... ". Frazzi ha dedicato qualche mese a uno studio sulle "scale alternate". A questo proposito nulla potrei aggiungere allo scrupoloso ed esauriente esame della questione fatto da Paolo Fragapane (cfr. Le scale alternate di Vito Frazzi, "Rassegna Dorica", Roma, 20 gennaio 1933). Voglio dire però che questo lavoro - pubblicato nel 1930 - che a prima vista può sembrare puramente teorico, è da considerarsi un documento etico di molta importanza, in quanto ci dimostra come il Frazzi sia desideroso di veder chiaro in ogni problema intuito dal suo spirito e con quanta coscienza e con quale preparazione egli si accosti all'espressione artistica. Nel campo della musica da camera Vito Frazzi ci ha dato due composizioni di ampie proporzioni: il Quintetto per archi e pianoforte e il Quartetto per archi. Il primo, incominciato nel 1912, opera di grande poesia, si trova ancora in quell'atmosfera lirica a sfondo popolaresco di cui si è parlato. Sereno il primo tempo, che offre una quantità di particolari interessanti dal punto di vista metrico, ritmico ed espressivo; sempre sereno l'adagio, la parte più profondamente ispirata della composizione. Soltanto nel finale fanno capolino gli elementi drammatici. Quanto faticosa sia stata per il Frazzi la conquista della libertà si può vedere raffrontando questo Quintetto col Quartetto scritto nel 1932. Il Quintetto infatti, nonostante le sue grandi qualità, appare in alcuni tratti ancora dipendente da certi procedimenti armonici cari alla scuola francese, cari soprattutto al Ravel del periodo migliore; procedimenti che, per quanto liberamente interpretati e intensamente rivissuti pur tradiscono la loro origine: il Quartetto invece, presentato per la prima volta in un concerto del Maggio Musicale Fiorentino, 1933, è composizione del tutto personale: di delicata sonorità, stringato, forte di ritmo, agile di movenze. Nel finale appaiono qua e là certe sonorità astratte che troveranno la più compiuta realizzazione artistica nel recente Preludio magico per orchestra. Cicilia, per coro misto e grande orchestra, ci presenta in sintesi armoniosissima gli elementi spirituali caratteristici della personalità di Frazzi. Sotto questo punto di vista quindi potrebbe trovare un posto vicino alle più intense liriche per canto e pianoforte. Ma in Cicilia c'è qualche cosa di più ancora. Ed è un senso di moderno ripensamento dello spirito dei nostri grandi madrigalisti, il più adatto che si possa immaginare per dare la giusta illuminazione e il tono definitivo al testo anonimo del XIV secolo, che accresce ancora il fascino e l'interesse dell'opera complessiva. Il Preludio magico è il lavoro più recente di Vito Frazzi e, a mio modo di vedere, il più avanzato. Non che questo Preludio non sia condotto in modo coerente di fronte al resto della produzione del musicista; ma è certo che in esso appaiono atteggiamenti insospettati. Sonorità fredde e lucide contrastano stranamente con le calde e rotondeggianti sonorità di Cicilia; un'atmosfera di incantesimo assolutamente personale e un certo tono astratto contrastano col carattere realistico del coro. E in questo Preludio magico che intravedo ormai chiaramente l'atteggiamento della futura produzione frazziana. Parlando oggi del Re Lear - tre atti e quattro quadri ridotti da Giovanni Papini dalla tragedia shakespeariana - non farei forse cosa grata all'autore. Un' opera teatrale non può essere giudicata che in teatro (ed è perciò che Frazzi ha rifiutato due anni or sono una proposta di esecuzione radiofonica). Mi riservo quindi di fare la critica del Re Lear quando un teatro lo includerà nel suo cartellone. E mi auguro, non per motivi di gratitudine o di affetto, ma soltanto per ragioni di giustizia, che fra non molto possa essere portata davanti al pubblico quest'opera originale, varia e nobilissima. Originale perché, pur basandosi sul "recitar cantando", questo recitativo è diversissimo per esempio da quello di Ildebrando Pizzetti - anche se con questo ha in comune l'accento improntato alla verità e la più scrupolosa cura nella chiarezza della declamazione. Varia perché non basta la maestria teatrale con la quale sono collocati certi episodi (per esempio la figura del Matto) ad alleggerire l'atmosfera tragica e cupa che grava sul lavoro che, senza tali episodi, forse avrebbe corso il rischio di diventare grigio e tetro come il Macbeth di Bloch. Nobile perché non una sola pagina, non una sola nota rivela la minima concessione. Quando Vito Frazzi faceva lezione, al Conservatorio o a casa sua, aveva il raro dono di interessare noi scolari considerando se stesso e noi al medesimo livello mentale e culturale, esponendoci i suoi dubbi, proponendoci le varie soluzioni dei problemi che gli si presentavano e quasi invitandoci a collaborare con lui. Talvolta ci faceva sentire al pianoforte le pagine dell'opera recentemente scritte. Facendo lezione sembrava far presente agli alunni la famosa mirabile frase del creatore poetico tedesco: "Wir sind nichts; was wir suchen ist alles" (Quello che siamo è nulla; quello che cerchiamo è tutto).
Qualche mese fa, uscita la partitura del Re Lear, mi sono affrettato a cercarvi le pagine più care al mio cuore, quelle che, talvolta, ho udito per primo o fra i primi. Ed ho subito riconosciuto il finale del secondo atto, il punto culminante dell'opera.

San Withold, San Withold tre giorni camminò
e monti e dune valicò.
San Withold, San Withold per strada incontrò
la strega e i nove suoi piccin.
San Withold, San Withold promessa a lei strappò
che all'uomo alfin la pace diè.

Ho conosciuto queste pagine nell'inverno del 1925-26, una mattina che Firenze era sotto la neve.Da allora il mio gusto e la mia sensibilità hanno compiuto l'evoluzione necessaria a ogni uomo fra i venti e i trentanni. Dopo undici anni di lavoro e di pratica musicale quante opere che allora mi piacevano e mi commuovevano oggi mi sembrano vuote e piccole! E quanta musica che allora non volevo sentire neppure nominare oggi mi appare grande e meravigliosamente bella in quella semplicità che una volta chiamavo povertà! Ritornando dopo tanti anni sulle pagine del Re Lear, è stata per me una grande gioia il ritrovarvi inalterata quella stessa commozione che ricordavo dai miei più giovani anni e quella stessa vivezza di disegno e quella composta serietà e quella instancabilità di meditazione. La musica di Frazzi non è per fortuna di quelle che, costruite con materiale friabile, basta qualche decennio a sgretolare e a sommergere.

L. Dallapiccola - Musicisti del nostro tempo: Vito Frazzi.
da "Rassegna Musicale" Torino 1937